Il ricordo di Robert Redford tra fragilità, amicizie e battaglie silenziose. Un passo di lato per far passare gli altri, il segno che resterà

Robert Redford ci ha lasciati e con lui, inevitabilmente, se ne va un pezzo della nostra vita. Film con lui protagonista, fatti di cronaca che lo hanno riguardato, voci anche di gossip sul suo conto. Tutto ci riporta alla sua presenza nella nostra vita e come in ogni caso del genere ci sembra quasi se ne sia andato un amico.
Ci sono vite che sembrano romanzi già scritti. Con i colpi di scena al posto giusto, la malinconia in controluce e quelle pagine che non vorresti mai finissero. Robert Redford apparteneva a questa categoria rara: uomini che diventano icone senza sforzarsi, perché la loro stessa esistenza ha dentro il passo della leggenda.
Dietro lo sguardo sicuro, però, c’era sempre un senso di fragilità. La consapevolezza che basta un attimo per cambiare tutto. Un insegnamento arrivato molto presto, quando aveva solo undici anni e cadde da un tetto di Los Angeles.
Quell’incidente lo lasciò a un soffio dal baratro. Lui stesso raccontò che fu il momento in cui capì quanto la vita potesse spezzarsi, e insieme quanto valesse rischiare pur di darle un senso. Una ferita che divenne bussola, e che riemerse spesso nei personaggi che ha interpretato.
Robert Redford, una vita da cinema. E non solo
Nato a Santa Monica, cresciuto tra Van Nuys e i quartieri assolati di Los Angeles, Redford non era un ragazzo modello. La scuola lo annoiava, preferiva disegnare, viaggiare, sporcarsi le mani. A un certo punto mollò l’università e partì per l’Europa. Zaino leggero, strade da scoprire, lavoretti per tirare avanti: imparò che l’errore non è un inciampo, ma un modo per diventare altro.
Tornato a New York, trovò nel teatro la disciplina che gli mancava. “Barefoot in the Park” lo portò in alto, e Hollywood non tardò ad accorgersene.

L’incontro con Paul Newman cambiò la storia del cinema: due fuorilegge romantici che ridefinivano il western in Butch Cassidy and the Sundance Kid. Poi arrivò The Sting, la consacrazione. E quando interpretò un giovane giornalista in All the President’s Men, mostrò a tutti qual era il suo vero baricentro: credere nel giornalismo, nella ricerca ostinata della verità.
Dietro la star c’era l’uomo che amava dipingere, perdersi nei boschi, sistemare una staccionata. Da questa intimità nacque la sua idea più rivoluzionaria: il Sundance Institute e il festival che ha aperto la strada a centinaia di registi indipendenti. Redford non si limitò a occupare la scena, la regalò agli altri.
Nel privato, dolori profondi: la perdita di due figli, ferite che non esibì mai, ma che lo accompagnarono come cicatrici silenziose. Anche questo spiega la delicatezza con cui dirigeva, da Ordinary People a A River Runs Through It. Non prediche, ma ascolto.
Robert Redford se ne va lasciando un’eredità che va oltre i film: l’idea che una star possa farsi artigiano, mentore, cittadino. Un uomo che ha saputo trasformare un volo dal tetto, a undici anni, in una lezione di vita. Guardare l’abisso senza farsene catturare, e restituire al mondo storie che ancora ci tengono compagnia.