La corsa degli stipendi nel 2026 potrebbe rallentare l’inflazione grazie a un vecchio strumento rivisitato in chiave moderna. La “scala mobile”, abolita nel 1992, potrebbe tornare con nuove regole per adeguare automaticamente le buste paga dei lavoratori italiani. Un ritorno che non riguarda tutti, ma solo chi resta troppo a lungo con contratti scaduti. L’ipotesi divide politica, imprese e sindacati, ma apre uno spiraglio di tutela contro l’erosione del potere d’acquisto. C’è chi la considera una svolta e chi la vede come un rischio per l’economia. Di certo, il 2026 sarà un anno da tenere d’occhio per chi vive di stipendio.
Il tema è tornato sul tavolo con la bozza della Manovra economica 2026. Al centro c’è una proposta che riguarda milioni di lavoratori con contratti collettivi scaduti da anni. L’idea è quella di legare parte della retribuzione all’andamento dei prezzi, attivando un meccanismo automatico dopo due anni di mancato rinnovo.

Il modello ricalca, in parte, la vecchia scala mobile, ma con correttivi precisi: aumenti fino a un massimo del 5% annuo, calcolati sull’indice IPCA, e l’obbligo di pagare gli arretrati alla firma del nuovo contratto.
Un sistema del genere, spiegano fonti vicine al Ministero del Lavoro, avrebbe due scopi: garantire una tutela minima contro l’inflazione e spingere le parti sociali a rinnovare i contratti in tempi più rapidi. In altre parole, chi non rinnova, paga. Per rendere sostenibile il sistema, il Governo ha previsto 2 miliardi di euro in tre anni per detassare gli aumenti salariali e facilitare gli accordi. La misura, tuttavia, non sarà universale: scatterà solo in caso di blocco prolungato e con limiti ben precisi.
La nuova scala mobile del 2026 sarà un’ancora per i redditi in attesa dei rinnovi contrattuali
Nel concreto, il meccanismo coinvolgerà i lavoratori i cui contratti collettivi non sono stati rinnovati entro 24 mesi dalla scadenza. A quel punto, la busta paga nel 2026 potrà aumentare automaticamente, in base all’inflazione rilevata dall’IPCA, ma solo fino al 5% annuo. Un tetto pensato per evitare effetti distorsivi sull’economia, come il rischio di una spirale prezzi-salari.

Un caso pratico: se il contratto di un dipendente del settore logistica è scaduto a gennaio 2024 e non viene rinnovato entro gennaio 2026, la sua retribuzione potrà essere adeguata automaticamente. Inoltre, quando il contratto verrà firmato, l’azienda dovrà corrispondere anche gli aumenti maturati a partire dal primo gennaio 2026, come accade già nel pubblico impiego.
Non tutti, però, vedono questa riforma con entusiasmo. Confindustria teme che le imprese più fragili non reggano il peso degli adeguamenti e degli arretrati. Altri economisti mettono in guardia sul rischio che anche un aumento contenuto possa alimentare ulteriormente l’inflazione. Ma il Governo risponde che i limiti fissati servono proprio a evitare questi scenari.
Le incognite legate al ritorno di un sistema automatico di aggiornamento degli stipendi
Se da un lato la misura vuole proteggere i lavoratori più esposti, dall’altro apre scenari complessi. L’aumento automatico non recupera completamente il potere d’acquisto perduto, soprattutto in un contesto di inflazione superiore al 5%. Inoltre, il fondo stanziato potrebbe non bastare se i rinnovi contrattuali continueranno a ritardare.
Il rischio è che questa “scala mobile moderna” funzioni solo sulla carta e diventi un peso per aziende e Stato. Eppure, molti lavoratori potrebbero trarne vantaggio già nel 2026. Nei settori dove i rinnovi sono spesso in ritardo, come commercio e turismo, questo meccanismo potrebbe garantire una boccata d’ossigeno in un momento di incertezza economica.
Resta da capire se la norma vedrà davvero la luce e in che forma. Il dibattito è aperto, ma una cosa è certa: il 2026 sarà un anno chiave per chi attende da troppo tempo che il proprio contratto venga aggiornato. Se la legge passerà, i salari 2026 potranno finalmente riallinearsi, almeno in parte, al costo reale della vita. E forse, questa volta, non sarà solo una promessa.





